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sabato 30 ottobre 2010

Ruby

Cioè, davvero mi state dicendo che Berlusconi potrebbe cadere rovinosamente perché ha aiutato una minorenne extracomunitaria a non avere problemi con la legge, ed i suoi alleati trovano che la faccenda sia compromettente?

martedì 26 ottobre 2010

I quarantanove racconti



Ho un rapporto di odio/amore con i racconti.
Non riesco a leggerne molti in un solo giorno. Soprattutto quando sono buoni racconti, mondi con un inizio ed una fine, precisi, senza nulla di troppo.
E se sono perfetti come questi, allora è un bel problema.
I racconti sono quarantanove.
Sono tutti perfetti. Certo, qualcuno l'ho trovato meno interessante, qualcuno invece mi è paciuto così tanto che il giorno dopo ne ho ricopiato metà su un quaderno. Ma sono tutti perfetti.

Non ho controllato che edizione ci sia in giro al momento, ma questa che ho sulla scrivania termina con un'intervista ad Hemingway già citata in questo blog.
Se amate la letteratura, se siete scrittori o anche solo degli appassionati, dovete procurarvi quest'intervista. Davvero. Ne va dell'amore che provate per la letteratura, che grazie a quest'intervista potrebbe diventare qualcosa di molto più grande (se esiste un termine preciso per esprimere un superamore mandatemi una mail).

La forma romanzo credo sia la più adatta per scrivere del mondo. Credo (questa l'avrete già letta decine di volte su questo blog) che i romanzi abbiano la stessa struttura della vita umana.
Ma i romanzi raramente sono perfetti, c'è sempre qualcosa che può essere eliminato, qualche piccola esitazione. Il lavoro che si può fare su un racconto, invece, ti permette di arrivare alla perfezione. Certo, se sei Hemingway o Carver, o l'editor di Carver (piccola punta di risentimento).

L'esempio perfetto del racconto perfetto è Colline come elefanti bianchi.
In cinque pagine capiamo le intenzioni dei protagonisti, assistiamo al dramma del loro rapporto, alla terribile sensazione che si scatena nell'uomo quando deve prendere una decisione, ci sorge il dubbio che sia una decisione forzata, soffriamo, sentiamo il sapore di ciò che stanno bevendo. Percepiamo il velo di fastidio che si distende sugli oggetti, viviamo la consapevolezza dei protagonisti, tutto cambierà per sempre, tutto è già cambiato, viviamo la speranza, una speranza amara, a suo modo negativa.
E tutto questo non è scritto. Resta sotto, sotto le trame dei discorsi, sotto i movimenti dei protagonisti. Rileggetelo un paio di volte, forse capirete perché Calvino diceva che avrebbe dato volentieri dieci anni della sua vita in cambio della possibilità di scrivere questo racconto.

Se state lavorando a qualcosa di lungo, un romanzo per esempio, e siete in quella terribile fase in cui tutto quello che avete scritto vi sembra troppo pieno di parole, la maggior parte delle volte tutte sbagliate, e quindi tagliate, accorciate, deturpate, concedetevi una pausa ed aprite questo libro. Sono sicuro che lascerete la matita rossa sul comodino.

Se non vi va di leggere tutti i quarantanove racconti dovete almeno leggere questi:

Colline come elefanti bianchi
Gatto sotto la pioggia
La breve vita felice di Francis Macomber
Il signor Elliott e signora
Un posto pulito, illuminato bene
Il lottatore
Campo indiano
Il mio vecchio
Cinquanta bigliettoni

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Ernest Hemingway - I quarantanove racconti, Einaudi

domenica 24 ottobre 2010

The mantra above the spotless melt moon

L'intervista alla band qui.

Ascoltate questi ragazzi e davvero - davvero eh! - non ve ne pentirete.


sabato 16 ottobre 2010

Consigli

Mi piace Gianni Mura. Quindi vi consiglio l'articolo a pg. 35 del Venerdì di questa settimana: Ora che è tutto finito, ho la risposta. Si, Diego era davvero megli'e Pelé.


domenica 10 ottobre 2010

Roger Federer come esperienza religiosa



Il tennis è uno sport affascinante.
Spacciarmi per un esperto non mi riuscirebbe neanche volendo, ho giocato a Tennis forse due volte. Ho visto qualche partita alla Tv, qualche partita dal vivo, più che altro partite d'allenamento di amici, niente di più.
Un'altra promessa che mi sono fatto, una volta aggiustato questo ginocchio rotto, è imparare a giocare.

Ma i personaggi come Federer, Nadal, li si conosce tutti, sono nomi di cui finisci per sapere qualcosa per forza, perché vivono sul tetto del mondo.
Ho già letto della passione per il tennis di Wallace in Tennis, tv, trigonometria (Minimum Fax), che da giovane ne ha giocate molte di partite (per quanto si finisca per credergli sempre, sono abbastanza sicuro che sia stato piuttosto modesto nel raccontare il suo talento), e proprio ieri ho comprato Roger Federer come esperienza religiosa. E' un articolo apparso sul New York Times del 20 agosto 2006, riproposto in una elegante ed esile edizione dall'editore Casagrande.

Ancora una volta Wallace scrive di quanto il Tennis sia uno sport difficile da comprendere profondamente se non ci hai mai giocato e di quanto sia difficile comprenderlo superficialmente se lo si segue solo in Tv. Scrive dei Momenti Federer, attimi in cui la grandezza del tennista si percepisce in maniera quasi imbarazzante, stupefacente:

Data la posizione di Agassi e la sua straordinaria rapidità, per riuscire a passarlo Federer doveva spedire la palla dritta lungo un tubo di cinque centimetri, ed è proprio quello che ha fatto, mentre saltellava all'indietro, senza il tempo di posizionarsi e caricare il peso. Era impossibile.

Wallace, inviato a Wimbledon nel 2006, assiste alla partita decisiva del torneo, la finale attesa da tutti, Federer contro Nadal. Per Wallace vuol dire poter analizzare il rapporto tra Forza e Bellezza, tra Violenza ed Eleganza, vuol dire parlare del senso cinestetico, del rapporto privilegiato che intercorre tra i grandi campioni ed il loro corpo, vuol dire dare una lettura di questo sport, ma non solo:

Ovvio, negli sport maschili nessuno parla mai della bellezza, della grazia, o del corpo. Gli uomini possono professare il loro "amore" per uno sport, ma questo amore deve sempre essere espresso e rappresentato nella simbologia della guerra: eliminazione e avanzamento, gerarchie di rango e posizione, statistiche maniacali, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalistico, uniformi, frastuono collettivo, bandiere, petti percossi, facce dipinte, ecc. Per ragioni che non sono totalmente chiare, molti di noi trovano i codici della guerra più sicuri di quelli dell'amore.

Non scriverò di più, data la brevità del testo (56 pagine comprese di note wallaciane), finirei per rovinarvelo. Vi basti sapere che nel finale, come al solito illuminante, perfetto, Wallace riesce a dare un senso all'esperienza dello spettatore, e riesce a spiegare cosa sia capace di scatenare in noi un gesto sportivo, tecnico e geniale.

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David Foster Wallace - Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande

venerdì 8 ottobre 2010

L'ultimo metro



Carver era un sostenitore della solidarietà tra scrittori.
Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che nascessero invidie e gelosie tra amanti della stessa arte, tra persone che condividono la stessa forma espressiva.

Io per primo per molto tempo, spero apprezziate questa piccola e personale autocritica, quando mi sono trovato davanti un testo scritto da qualcuno che conoscevo sono stato titubante.
La mia più grande paura era scoprire che quello scrittore, un conoscente tra le altre cose, fosse migliore di me. Come se esistessero dei parametri, poi. Fortunatamente ho smesso di comportarmi così. Fortunatamente per me, prima che per gli altri che dei miei giudizi se ne fanno ben poco. Fortunatamente per me, perché mi sarei perso delle cose davvero interessanti continuando su quella strada.

Giovanni Di Benedetto è un ragazzo che ho conosciuto all'università diversi anni fa. Già nel 2005 si dimostrò più saggio di me, quando incontrandolo al concerto dei Sigur Ròs a Firenze mi disse che aveva prenotato un ostello per la notte, mentre io ed altri tre disgraziati amici congelammo alla stazione (poi un giorno ne scrivo, promesso). Ogni tanto ci incontriamo perché ci piacciono le stesse cose. Giovanni sul suo blog scrive un sacco cose interessanti (prima aveva un'immagine meravigliosa che adesso ha sostituito, ma gli ho già espresso il mio parere), credo di averlo già consigliato, fatevi un giro se non l'avete ancora tra i preferiti.

Il suo racconto L'ultimo metro, è stato pubblicato nel 2009 dall'ARPAnet.
Finalmente me ne sono procurato una copia. Vi consiglio di leggerlo. E' un racconto intenso e strutturato in maniera interessante.

D'improvviso pioggia. I camerieri dei cafè si agitano, sgombrano i dehor e ricevono mance di chi decide di correre via. L'entrata della metro di Republique si orna di venditori di ombrelli da due soldi come mercanti nel Tempio che spacciano fede.

Descrizioni di attimi, molteplici punti di vista, personaggi inconsapevoli.
Al di là dello stile, ciò che è davvero importante è che il racconto è pieno zeppo di citazioni importanti. Normalmente ritengo l'utilizzo di una citazione una scelta adolescenziale, ma Giovanni ha scelto bene cosa inserire, o meglio, sono sicuro che siano loro ad averlo scelto.
Quando lo leggete quindi, se mai doveste scoprite di non conoscere qualche brano musicale, o peggio ancora un libro citato, correte ai ripari che ne va della vostra cultura.

Il formato (Mini concept letteratura) è delizioso, è un piacere sfogliarlo, delicato com'è.
Questo è il link per acquistarlo.

giovedì 7 ottobre 2010

Sarah Scazzi

Allora, provo a tirare fuori qualcosa di sensato.
Mi fa un po' male la testa e soprattutto tutto quello che è successo mi ha scosso, perdonate quindi qualche errore che mi scapperà inevitabilmente.

Non sono un telespettatore di Chi l'ha visto. E' uno di quei programmi di cui, seppur riconoscendone l'utilità in alcuni casi, mi piace fare a meno per via dell'ansia che trasuda da ogni puntata. Mia madre invece è proprio una fan. Così mi sono ritrovato a seguire la puntata di stasera. In più Sarah Scazzi è di Avetrana, un paesino a cui sono legato perchè praticamente trascorro ogni estate da 24 anni a pochissimi chilometri da lì. La scomparsa di Sarah era il centro della puntata di stasera. Ospiti, in diretta dalla casa della zia, la madre di Sarah, due amici e la cugina di Sarah, Sabrina, che per tutta la diretta ha deciso di non farsi vedere.
Lo zio e la zia di Sarah, proprietari della casa da cui si effettua il collegamento, sono al momento del collegamento a Taranto da diverse ore: stanno subendo un interrogatorio.
I più maliziosi hanno subito capito che qualcosa stava accadendo.
Solo che poi quello che sembrava essere solo un cattivo pensiero è diventata una certezza. C'è la prima fuga di notizie, Repubblica titola immediatamente sul sito (siamo intorno alle 23:30) Ritrovato il corpo di Sarah Scazzi (non sono stato veloce nel fare uno screenshot, ma ad altri blogger non sarà sfuggita l'opportunità). Succede tuto velocemente, i giornalisti vengono a conoscenza della morte della ragazza prima che venga data la notizia ai genitori. Però non c'è la certezza e nessuno si è preso la briga di avvisare la madre, che in diretta col programma, sembra capire e non capire.

Ora qui si parla dei moventi, ci si interroga. Fioccano le prime considerazioni.
Adesso ci si chiede cosa abbia fatto crollare lo zio reo confesso.
Io però mi chiedo come sia possibile che qualcuno sia uscito dalla stanza pochi secondi dopo la fine dell'interrogatorio o, ipotesi ancora peggiore, durante l'interrogatorio e abbia fatto partire la telefonata. I giornali danno così la notizia alla madre, che apprende non solo della morte della figlia in diretta ma anche che probabilmente è stata uccisa dallo zio. Tutto questo mentre si trova proprio a casa dell'assassino.

Difenderò la categoria ogni volta che potrò. Ma questa è una zappa sui piedi. Una zappa squallida, che mi ha fatto venire il mal di testa e che mi ha disgustato. Come se non bastasse il ritrovamento del corpo di una ragazzina, colpevole come sempre, di nulla.

domenica 3 ottobre 2010

Il filologo tecnologico

Il 12 settembre - si lo so che siamo ormai al 2 ottobre ma ho avuto da fare - su Repubblica, nelle pagine dedicate a Napoli, a pagina 19 per la precisione, è uscito un articolo su Costanzo Di Girolamo.

Chi è? E' il coordinatore della scuola di dottorato in Filologia moderna della Federico II. Non so se tiene ancora dei corsi alla triennale, è passato un po' di tempo da quando ho fatto i due esami con lui. La cosa interessante però non è questa, ma ciò che c'è scritto nell'articolo di Ilaria Urbani.

Di Girolamo in pratica è una rock star. Alla fine degli anni '60 ha insegnato prima in Canada e poi in America a Baltimora: era più giovane dei suoi studenti. Proprio a Baltimora trascorre un'intera giornata con Italo Calvino. E poi racconta dell'incontro con Gianfranco Contini.
Ora, magari a quelli che non hanno molto a che fare con questioni di letteratura questo nome non dice niente, ma per chi gravita intorno a questo enorme pianeta un nome come quello di Contini fa tremare le vene e i polsi. E Di Girolamo racconta di essere stato invitato a casa sua a Firenze, quando aveva poco meno di trent'anni, per parlare davanti ad una bottiglia di Porto.

Ora se a qualcuno interessa io ho strappato la pagina e l'ho messa da parte.
Di scanner funzionanti in casa non se ne trovano.
Però vi giuro, c'è una foto di Di Girolamo che si tocca il mento ed un suo ritratto a matita.

venerdì 1 ottobre 2010

La fuga di Tolstoj



Questa settimana ne ha parlato anche Corrado Augias sul Venerdì.
Il libro è riproposto da Skira, prima edizione quella di Einaudi, e racconta della fuga di Tolstoj dalla tenuta di Jasnaia Poljana.

Il libro è un vero racconto. Dice bene Augias: il libro di Cavallari è un vero e proprio racconto, fondato anch'esso sulle circostanze (nell'articolo sul Venerdì fa un confronto con Tolstoj è morto di Vladimir Pozner - Adelphi), ma che delle circostanze reali sa fare a meno per ricostruire lo stato d'animo del grande vegliardo.

All'età di 82 anni Tolstoj scappa di casa come un adolescente per non tornare mai più. E' nota la sua insofferenza per l'atmosfera familiare, per i continui controlli dell'asfissiante moglie, per il rapporto a volte complicato con i figli. Cavallari ipotizzia pensieri, sensazioni, addirittura rivalutazioni (interessante quella sui viaggi in treno).
Qualche anno fa all'università un professore illuminato ci fece leggere un saggio sulla morte di Tolstoj. Non ricordo l'autore, ma ricordo le parole di Gorkij citate alla fine del saggio. Osservando il corpo del defunto Tolstoj, capì che era morto prima che un grande romanziere, per alcuni il più grande, un grande uomo e che un'era era finita per sempre, irrimediabilmente. La fine della fuga di Tolstoj è la morte, in una piccola stazione.

A metà libro ci sono delle foto eccezionali, compresa l'unica foto a colori scattata allo scrittore. Sono dell'idea che la venerazione non sia una buona cosa, ma parliamo di Tolstoj, forse il più grande romanziere mai esistito. E così non si può fare a meno di rimanere incantati guardando i colori del 1908. Tolstoj è seduto su una sedia di legno, ha le gambe incrociate e gli stivali neri lucidi. Sulla camicia azzurra si adagia la barba bianca, il volto è segnato e duro.

Magari qualcuno potrebbe trovarlo noioso. Così come molti - esistono davvero e sono molto più di quelli che credete - trovano noioso Tolstoj.
Per me è diverso. Porto ancora addosso i segni di Guerra e Pace.

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La fuga di Tolstoj - Alberto Cavallari, Skira